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Marco Causi

Professore di Economia industriale e di Economia applicata, Dipartimento di Economia, Università degli Studi Roma Tre.
Deputato dal 2008 al 2018.

La soluzione più conveniente non è sempre quella liberistica del lasciar fare e del lasciar passare, potendo invece essere, caso per caso, di sorveglianza o diretto esercizio statale o comunale o altro ancora. Di fronte ai problemi concreti, l´economista non può essere mai né liberista né interventista, né socialista ad ogni costo.
Luigi Einaudi
 



06/08/2009 M.Causi
Una politica nazionale per il Sud fuori dalle ipocrisie
Il braccio di ferro sui fondi per la Sicilia ha avuto almeno un merito: si torna a parlare del Mezzogiorno. Ma i meriti si fermano qui, perché la discussione resta davvero di scarsa qualità (un po´ come la spesa pubblica, verrebbe da dire), confusa e carica di ipocrisie.
Per tentare di fare chiarezza partiamo da un dato. Le politiche per lo sviluppo territoriale sono solo una parte delle politiche pubbliche, e neppure la più grande. Nel Sud, dove le politiche per lo sviluppo territoriale sono più fortemente concentrate (in teoria per l´85%), si tratta di meno di 10 miliardi all´anno su una spesa dell´intero settore pubblico allargato di circa 200 miliardi: insomma, i fondi "aggiuntivi" per lo sviluppo pesano solo per il 5% sull´intervento pubblico complessivo.
Da questo dato si potrebbe partire per lamentare l´insufficienza degli interventi di riequilibrio messi in campo in Italia, al confronto ad esempio con la Germania o la Spagna. Ma non è questo il punto che intendo sviluppare, piuttosto il fatto che le condizioni socio-economiche del Sud dipendono non solo dalle politiche "aggiuntive", ma anche, e molto, dal buon funzionamento di quelle "ordinarie". Dentro i 200 miliardi "ordinari" ci stanno la sicurezza, la giustizia, la legalità, l´istruzione, la ricerca, la sanità, l´assistenza, i servizi di prossimità, i servizi pubblici locali, e tanto altro. Ci stanno azioni pubbliche che fanno riferimento sia allo Stato centrale che alle Regioni e agli enti locali. E´ soltanto incidendo su questo più ampio perimetro che, alla lunga, si migliorano le condizioni del Sud, e non concentrando spasmodicamente l´attenzione e le risorse della politica sui soli fondi "aggiuntivi". Questi ultimi possono essere "tanti" o "pochi", ma non funzionano − diventano appannaggio della "coalizione della rendita", per usare le efficaci parole di Ivan Lo Bello - se non riescono ad intrecciarsi con le politiche ordinarie e a diventare così volano per il miglioramento quali e quantitativo di tutte le azioni pubbliche essenziali. E´ questo il vero insegnamento storico del declino del vecchio intervento straordinario nel Mezzogiorno, una volta esaurita la fase eroica dell´infrastrutturazione di base negli anni ´50 e ´60.
Una politica nazionale per il Sud non si costruisce soltanto accelerando le procedure per la costruzione delle opere pubbliche, obiettivo peraltro sacrosanto, nel Sud e nel resto d´Italia, ma fornendo una sponda nazionale alla presenza moderna ed efficiente dello Stato, in tutte le sue articolazioni, e facendo in modo che le politiche di tipo generale non abbiano effetti distorsivi a livello territoriale (diversamente da quanto accaduto di recente in campo fiscale, dove l´abolizione dell´Ici sulla prima casa e la detassazione degli utili reinvestiti avvantaggiano relativamente più il Nord del Sud).
E´ su questo cruciale punto di scenario che il dibattito estivo mostra ancora tante ipocrisie. Fin dalla "nuova programmazione" avviata nel 1998 da Ciampi e poi con la creazione del Fas, il fondo "aggiuntivo" per le aree svantaggiate, durante il precedente governo Berlusconi, fu chiaro che le politiche di sviluppo territoriale dovessero avere due linee d´azione: una di livello regionale e una di livello nazionale. Ai programmi regionali cofinanziati con i fondi comunitari vennero affiancati una serie di programmi nazionali, non solo nel campo degli incentivi alle imprese, ma anche in settori infrastrutturali e di servizio essenziale, direttamente gestiti dai Ministeri e dai concessionari di pubblico servizio. Ad esempio, con fondi comunitari, il Ministero dell´istruzione ha gestito e gestisce ancora risorse per il sistema dell´istruzione, il Ministero dell´interno per il sistema della sicurezza, e via continuando con il Ministero delle infrastrutture e trasporti e quindi Ferrovie dello Stato, Anas, ecc. A coordinare il tutto fu posto il Dipartimento per le politiche di sviluppo, in origine presso il Ministero dell´economia e poi spostato al Ministero dello sviluppo economico.
La valutazione dei risultati di questi programmi è un elemento importante per decidere se continuarli o meno. Non voglio entrare nel merito, mi limito solo a ricordare che, diversamente da quanto accade per molte altre politiche pubbliche italiane, questi programmi sono costantemente monitorati. Se ne conoscono con grande dettaglio obiettivi e risultati, grazie a un imponente lavoro tecnico realizzato in questi anni, anche perché una parte dei fondi vengono distribuiti con un criterio di premialità, che avvantaggia le amministrazioni più virtuose nel raggiungimento degli obiettivi prefissati.
La prima ipocrisia sta nel fatto che il Fas, programmato per il periodo 2007-2013 in modo da alimentare programmi sia nazionali che regionali, ha subito tagli e rimodulazioni negli ultimi quattordici mesi (più o meno 33 miliardi sui 60 originariamente disponibili) che si scaricano proprio sui programmi di livello nazionale. Quelli regionali, infatti, non si sono finora toccati per non pregiudicare l´effetto moltiplicatore dei finanziamenti comunitari. C´è una contraddizione fra la volontà di rilanciare le politiche nazionali per il Sud, dichiarata dal Ministro dell´economia, e il fatto di ridurre al lumicino le risorse dedicate al livello nazionale d´intervento. Nell´abilissima comunicazione quotidiana del governo si utilizzano le cifre dei programmi regionali, a partire da quello della Sicilia sbloccato qualche giorno fa, ma prima o poi il governo dovrà decidere cosa fare di tutto il resto, se vorrà rispondere con credibilità all´accusa di voler smantellare, piuttosto che rafforzare, le politiche per il Sud.
La seconda ipocrisia sta nel fatto di scaricare su Regioni ed enti locali tutte le responsabilità. Naturalmente, Regioni ed enti locali hanno tante responsabilità, ma i Ministeri romani non c´entrano nulla? E i concessionari di pubblico servizio che prendono risorse che dovrebbero essere aggiuntive e poi lesinano nei loro ordinari piani di investimento attenzione, progettualità e operatività alle aree svantaggiate del paese? Perché, invece di ipotizzare l´istituzione di nuove tecnostrutture romane, il Ministro per lo sviluppo economico non convoca tutti i soggetti centrali (Ministeri e imprese concessionarie, in gran parte controllate dallo Stato) e non utilizza tutti i poteri che ha? Ad esempio, per fare un´immediata ricognizione delle opere pubbliche di livello nazionale (nel trasporto ferroviario e stradale, nelle reti energetiche e di comunicazione, nei beni culturali) immediatamente cantierabili, ovvero per verificare i risultati raggiunti e il possibile ampliamento degli interventi sui sistemi dell´istruzione di base e della sicurezza? Ben venga un maggiore coordinamento fra le Regioni, e la possibilità di migliorare i piani regionali aprendoli al finanziamento non solo degli interventi di scala locale ma anche di quelli di tipo interregionale. Ma all´interno dello Stato c´è davvero bisogno di una nuova agenzia per coordinare?
Al di fuori delle ipocrisie, restano due dati di fatto da cui ripartire, entrambi rilevati nel recente Rapporto Svimez. La spesa pubblica in conto capitale per abitante nel Mezzogiorno è in forte riduzione: segno non solo delle difficoltà incontrate dalle politiche "aggiuntive" per lo sviluppo, ma anche della scarsa attenzione alle infrastrutture da parte delle politiche "ordinarie" dello Stato e delle Regioni, con l´unica lodevole eccezione dei Comuni (a proposito, smettiamola di dire che i sindaci che usano i fondi "aggiuntivi" per scuole, asili nido, manutenzione dei centri storici stanno disperdendo "a pioggia" le risorse: i beni pubblici locali di prossimità sono importanti per lo sviluppo quanto, e talvolta anche più, delle grandi opere).
Al contrario, la spesa pubblica corrente per abitante nel Mezzogiorno, al netto di quella previdenziale e assistenziale, e quindi la spesa per il funzionamento dei servizi erogati da Stato, Regioni ed enti locali, non solo è in aumento, ma ha quasi raggiunto il valore medio del Centro-Nord: era pari al 91% di quel valore nel 1996, è pari oggi al 98%. Qui si riflette, drammaticamente, l´effetto del depauperamento demografico del Sud relativamente al Nord. E tuttavia resta il fatto che c´è qualcosa che non va nel funzionamento di una macchina pubblica, nel Mezzogiorno, che costa ormai quasi come quella delle aree più avanzate ma produce una quantità e una qualità di beni e di servizi certamente inferiore. Ecco allora l´ultima ipocrisia che va messa da parte: che l´attuazione delle nuove regole del federalismo fiscale, con il passaggio ai costi standard per il finanziamento dei servizi essenziali, sia negativo per il Sud. Al contrario, rappresenta un´opportunità cruciale per mettere in efficienza le amministrazioni (statali, regionali e locali) al Sud come al Nord e liberare così risorse per gli investimenti.
Marco Causi
Università degli Studi Roma Tre, Deputato PD
 

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