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Marco Causi

Professore di Economia industriale e di Economia applicata, Dipartimento di Economia, Università degli Studi Roma Tre.
Deputato dal 2008 al 2018.

La soluzione più conveniente non è sempre quella liberistica del lasciar fare e del lasciar passare, potendo invece essere, caso per caso, di sorveglianza o diretto esercizio statale o comunale o altro ancora. Di fronte ai problemi concreti, l´economista non può essere mai né liberista né interventista, né socialista ad ogni costo.
Luigi Einaudi
 



10/09/2010 M.Causi
Convegno della CGIL sul federalismo fiscale
Intervento di Marco Causi al Convegno della CGIL sul federalismo fiscale
Palermo, 18 giugno 2010
Ringrazio la Cgil siciliana per avere organizzato questo seminario, davvero utile e stimolante. E dico subito che sono d´accordo con la preoccupazione espressa da Gianfranco Viesti, sul rischio cioè di un vero e proprio regresso culturale del paese verso modelli di comportamento di tipo "etnico", in base ai quali il riferimento unico del pensiero e dell´azione diventi la sola provenienza territoriale.
Anche a me è capitato, e mi sembra un aneddoto istruttivo. Se girate sul web troverete un articolo scritto da un giornalista napoletano che espone la seguente tesi: il federalismo fiscale è una grande fregatura per le regioni del mezzogiorno continentale, e ciò è dimostrato non solo dal fatto che esso è sbandierato dalla Lega nord con un´intonazione punitiva nei confronti del sud, ma anche dal fatto che … ci sono due siciliani alla presidenza e alla vicepresidenza della Commissione bicamerale per l´attuazione della legge 42. Dato che Enrico la Loggia e Marco Causi sono siciliani, continua il ragionamento, ad essi dell´impatto negativo del federalismo sul sud non gliene importa niente, poiché la Sicilia, con il suo statuto speciale, è esclusa dall´attuazione della legge. Quindi, la provenienza siciliana del presidente e del vicepresidente della bicamerale diventa la prova provata, secondo questa tesi "etnica", del pericolo che il federalismo comporta per Campania, Puglia; Basilicata e Calabria.
La preoccupazione di Viesti è seria. Il paese si sta abituando a ragionare in modo sordo e gretto facendo riferimento al solo micro-territorio di origine. Si sta affievolendo la tenuta di visioni politiche nazionali. Tutto è distorto da una versione deteriore del localismo. Al giornalista napoletano di cui sopra non interessa ragionare, ad esempio, sugli esiti del forte impegno meridionalista della Svimez durante i lavori parlamentari sulla legge 42, sul fatto che tutti gli emendamenti proposti dalla Svimez siano stati fatti propri dal Partito Democratico e dalle altre opposizioni, sul fatto che siano stati quasi tutti approvati e inseriti nel testo di legge. A partire da quello più importante: la garanzia del mantenimento dei fondi ex accise sulla benzina, i quali rappresentano uno storico volano di finanziamento delle politiche regionali di sviluppo nelle regioni a statuto ordinario del sud (fondi, quindi, da cui è esclusa la Sicilia). E non interessa capire che per la Sicilia e la Sardegna l´aggancio ai nuovi meccanismi previsti dalla legge 42, anche se avverrà per via pattizia, tramite norme di attuazione dei rispettivi statuti, è nondimeno essenziale e inderogabile, di fronte al rischio di restare escluse dai nuovi fondi perequativi.e di restare indietro rispetto alle innovazioni di ordinamento e di organizzazione degli apparati pubblici locali che la legge 42 determina. Ne è esempio l´adesione della Sicilia alle stesse procedure usate per la Campania sui piani di rientro sanitari, che in qualche modo anticipano alcune filosofie codificate poi nella legge 42 (costi standard, monitoraggio condiviso dei processi di convergenza, ecc.).
Da questo punto di vista, saluto con favore l´impegno di un´organizzazione nazionale come la Cgil sul terreno del federalismo fiscale. Il seminario che si è svolto oggi a Palermo è una vera boccata di ossigeno: sta saldamente dentro una cultura che fa riferimento all´interesse generale del paese, ma che al tempo stesso non rinuncia a stare in campo sul terreno delle riforme e dell´innovazione.
Permettetemi in queste conclusioni di partire proprio dalla Sicilia. Lo ha detto bene Giorgio Macciotta e lo voglio ribadire: la difesa a spada tratta, aprioristica, ideologica, della vecchia specialità non fa più parte, a mio modo di vedere, di un vero programma riformista e progressista per quest´isola, così come per l´altra grande isola. A dire il vero questa consapevolezza mi sembra ormai abbastanza diffusa nelle classi dirigenti siciliane e sarde, e infatti non è da lì che è venuto il più violento attacco al testo della legge uscito dal Senato, nel quale si prevedeva l´applicazione automatica della 42 a tutte le regioni, ordinarie e speciali. Sono state le regioni speciali del nord a lanciare l´attacco, e non quelle del sud. Naturalmente, quando trentini e valdostani hanno sferrato l´offensiva − chiedendo e ottenendo l´esplicito riferimento alle norme di attuazione degli statuti speciali, inserito alla Camera − siciliani e sardi si sono schierati. E il governo ha preferito inserire la clausola della specialità nel testo di legge per evitare possibili contenziosi costituzionali. E tuttavia, la battaglia è stata condotta soprattutto dai trentini, anche sulla base di motivazioni politiche contingenti, come l´approssimarsi delle elezioni provinciali di Trento e la necessità, per lo stesso centrosinistra, di non lanciare segnali di penalizzazione a svantaggio dell´autonomia speciale di quella provincia.
Macciotta lo ha detto: la legge 42 prevede fondi perequativi per i servizi essenziali, calcolati a costi standard, delle regioni a statuto speciale che hanno livelli di reddito medio procapite inferiori alla media nazionale, e cioè Sicilia e Sardegna. Non si tratta soltanto di una promessa finanziaria: d´altra parte, con l´aria che tira sulle economie e sulle finanze pubbliche d´Europa, sarà dura nei prossimi anni pensare a risorse aggiuntive, con o senza la legge 42. Il punto quindi non è meramente finanziario, è più generale:
• primo, l´introduzione dei costi standard, e quindi di parametri di riferimento oggettivi e condivisi per il costo delle prestazioni pubbliche essenziali. Una scommessa fondamentale non solo per l´efficienza, ma anche per l´equità: perché una spesa pubblica di scarsa qualità, come sa bene un´organizzazione come la Cgil, si scarica soprattutto a danno delle persone più deboli, sotto forma di bassa qualità dei servizi, di loro sottodotazione, di costi tariffari eccessivi e regressivi sul piano redistributivo;
• secondo, il riferimento ai livelli essenziali delle prestazioni nei servizi essenziali delle regioni (sanità, assistenza, istruzione) e nelle funzioni fondamentali dei comuni e i previsti meccanismi di coordinamento dinamico della finanza pubblica per la convergenza verso questi livelli rappresentano per i territori sotto standard, e quindi per tutti i territori del sud, sia quelli regionalmente "speciali" sia quelli "ordinari", una nuova speranza che al percorso di efficienza si associ un percorso di perequazione.
Perequazione sulla fornitura dei servizi essenziali di welfare collegati all´esercizio di diritti di cittadinanza. Di questo si tratta, e non di "risarcimento" per i torti subiti nei primi decenni della storia unitaria del nostro giovane paese che sta compiendo 150 anni. Capite bene la differenza di approccio e di cultura politica, capite bene il diverso impatto sui meccanismi di funzionamento delle decisioni politiche e degli apparati amministrativi, al confronto con il tradizionale e conservativo approccio risarcitorio di alcune correnti dell´autonomismo siciliano.
Da questo punto di vista, a me sembra superata anche la sempiterna bandiera delle accise alla produzione di prodotti petroliferi. Anzi, mi sembra non solo superata ma addirittura un po´ rischiosa. E´ superata per due motivi: da un lato, sembra alternativa ai nuovi fondi perequativi, e forse meno conveniente; dall´altro lato, la previsione della legge 42 è comunque per l´utilizzo di fondi perequativi. Le imposte non restano dove sono generate − questo anzi è stato un punto fondamentale della battaglia politica dei democratici e delle opposizioni contro l´iniziale impostazione egoistica del progetto lombardo e leghista − vengono comunque, comprese le accise, messe in fondi e ripartite fra tutti. C´è poi un rischio da non sottovalutare, legato alle modalità di riparto dell´Iva, imposta fondamentale per il finanziamento dei servizi essenziali delle regioni, compresa la sanità. E´ cruciale per i territori a reddito più basso che il riparto dell´Iva continui a fare riferimento − dati i costi standard − ai consumi piuttosto che alla produzione. Una posizione di "sicilianismo" estremista sulle accise alla produzione rischierebbe di fare da sponda alle richieste leghiste di ripartire anche l´Iva sulla base della produzione e non dei consumi. E questo, oltre ad essere negativo per tutto il sud (allora sì che il giornalista napoletano che ho citato all´inizio potrebbe dire di avere ragione…), credo non sia conveniente neppure per la Sicilia, Insomma, anche accettando di "volare basso", i sostenitori delle accise alla produzione devono dimostrare non solo che i proventi per la Sicilia − conseguenti comunque a un riparto nazionale - sarebbero superiori a quelli dei nuovi fondi perequativi, ma anche che l´operazione sarebbe conveniente in caso di modifiche dei criteri di riparto dell´Iva. E credo proprio che questa dimostrazione sia impossibile.
Credo invece che il futuro della "governance" pubblica locale siano i costi standard, la concentrazione degli apparati politici e amministrativi sui servizi pubblici essenziali, una perequazione non di tipo risarcitorio, ma legata, come ha ricordato Viesti, al concetto di livelli essenziali e di obiettivi di servizio: con i soldi disponibili a quanto possiamo portare in cinque anni la copertura del servizio di asilo nido? A quanto la copertura per l´assistenza domiciliare integrata degli anziani non autosufficienti? A quanto la copertura dei servizi di depurazione e fognatura? Dentro questo schema, che prevede ovviamente la compatibilità con i vincoli di finanza pubblica europei e nazionali, usare in modo accorto autonomia impositiva, compartecipazioni e fondi perequativi dando trasparenza ai bilanci e all´azione pubblica, convergendo da un lato ai costi standard e rendicontando dall´altro lato lo stato di raggiungimento dei diversi obiettivi assegnati.
Si tratta, su scala più generale e intervenendo ex ante, e non ex post, di quello che stiamo imparando a fare con i piani di rientro della sanità. Programmazione degli obiettivi; monitoraggio delle realizzazioni fatto non in modo autonomo e auto-centrato da ogni singola amministrazione, ma coinvolgendo, nel caso delle regioni, le altre regioni e lo stato, e nel caso dei comuni e delle province, gli altri comuni e province e lo stato; "benchmarking" sui costi e sui modelli organizzativi; assistenza tecnica e aiuto agli enti in difficoltà con meccanismi che intervengano non solo in modo punitivo dopo che si è realizzato il deragliamento (potere sostitutivo), ma anche prima che il deragliamento avvenga con processi collaborativi. Si tratta dell´articolo 18 della legge 42, quello relativo al patto di convergenza, e mi ha fatto piacere che questo articolo sia stato ricordato durante i lavori del seminario, perché è uno dei frutti più importanti dell´impegno esercitato dal Partito Democratico e dalle opposizioni attraverso l´attività parlamentare ed emendativa del testo originario del governo.
Stare fuori da questo processo può, già da ora, fare danni alla Sicilia. Prendo l´esempio del primo decreto di attuazione della 42, quello relativo al trasferimento dei beni demaniali. L´agenzia del demanio ha depositato le liste degli oggetti immobiliari che potrebbero essere trasferiti a comuni, province e regioni, e la lista siciliana contiene 850 oggetti. Entro 180 giorni i comuni, le province e le regioni di tutta l´Italia "ordinaria" potranno cominciare a fare le loro opzioni, mentre per gli enti locali siciliani bisognerà aspettare l´accordo "bilaterale" ai sensi dello statuto. Dalle telefonate che ricevo dai sindaci siciliani, c´è interesse per molti di questi 850 oggetti, e allora lancio l´appello al governo siciliano, tramite l´assessore Centorrino che ha aperto i nostri lavori, di attivare e concludere il più velocemente possibile il tavolo bilaterale con il governo nazionale.
E poi i costi standard. Far restare la Sicilia fuori dai costi standard significa perdere la scommessa riformista per la modernizzazione degli apparati pubblici regionali e locali della nostra regione, una scommessa il cui esito è cruciale per lo sviluppo e per l´equità. Restare fuori dai costi standard significa avere un grimaldello in meno per fare politiche di efficienza. Politiche di efficienza che − voglio ricordare − partono anche dal fare le piante organiche, com´è stato fatto con l´ultima finanziaria regionale; politiche di efficienza che partono anche dal rispettare gli obiettivi del piano di rientro sanitario. Al contrario di Enrico La Loggia, che prima di me ha descritto tanti punti negativi sull´attività amministrativa locale e regionale in Sicilia, voglio invece dire una cosa positiva: quando il monitoraggio del governo nazionale ha accertato che la Sicilia è stata, fra tutte le regioni in deficit, l´unica ad avere rispettato gli obiettivi del piano di rientro, io ne ho tratto motivo di soddisfazione. So bene i sacrifici necessari, so dei grandi problemi politici che l´attuazione del piano ha generato, ma la strada è solo questa: lo ha detto bene Susanna Camusso.
Potremo difendere il sud, difendere il meridionalismo, difendere gli obiettivi del welfare pubblico e delle politiche pubbliche in questo paese soltanto se siamo in grado di ricondurre la spesa pubblica a criteri di efficienza, di trasparenza, di rendicontabilità e quindi anche di assoggettarla a una maggiore partecipazione democratica con tutte le organizzazioni sociali, a partire dalle organizzazioni sindacali. Se non vinciamo la sfida dell´efficienza sulla spesa pubblica, non siamo neanche credibili nel chiedere, come dobbiamo chiedere, i paletti, le garanzie, i fondi perequativi e tutto quello che va attivato per i territori in ritardo di sviluppo e con minore capacità fiscale.
Attenzione: sulla scommessa dei costi standard sono state suonate troppe vuvuzelas propagandistiche, troppe interpretazioni ideologiche di un federalismo da usare come clava da dare in testa ai meridionali. Un gruppo di studiosi della Bocconi ha fatto un primo studio che applica i costi standard alla sola spesa ospedaliera pubblica, quindi non a tutti i 110 miliardi della sanità ma soltanto a 60 di quei 110. Lo studio è pubblicato sull´ultimo rapporto sulla finanza pubblica italiana edito da "il Mulino" ed è stato redatto dai professori Arachi, Mapelli e Zanardi di Econpubblica Bocconi. Ovviamente è uno studio accademico, non si tratta ancora dei veri costi standard che avranno valenza operativa. Bene, applicando varie ipotesi aggregate sui costi standard, viene fuori naturalmente che il Lazio deve risparmiare, e così la Campania e la Sicilia, che già lo sta facendo, ma che anche in Lombardia e Veneto ci sono potenziali risparmi.
Sono interessanti le vicende raccontate stamattina da Susanna Camusso sulla Lombardia, perché in effetti la spesa sanitaria lombarda, per quanto riguarda l´ospedaliero, risulta dalle analisi di Econpubblica Bocconi in eccesso per un ammontare che oscilla fra 400 e 700 milioni di euro. Quindi anche la Lombardia deve risparmiare. Il fatto che la Lombardia riuscirà a chiudere il conto finanziario del suo welfare regionale e locale senza attingere a un fondo perequativo, mentre invece le altre regioni dovranno attingere a un fondo perequativo, non cambia la questione. Il fatto che la Lombardia non attingerà a un fondo perequativo, ma riuscira a finanziarsi facendo ricorso soltanto ai tributi propri, alle compartecipazioni e alle addizionali, non rende gli amministratori regionali lombardi liberi di fare quello che vogliono con i soldi che gestiscono. Gli amministratori regionali lombardi sono assoggettati a obblighi di trasparenza, di efficienza, di costi standard, di raggiungimento dei livelli essenziali, esattamente come quelli che hanno bisogno del fondo perequativo. Stiamo parlando di come si spendono i soldi dei contribuenti, dei cittadini, dei lavoratori italiani, prima ancora che lombardi o siciliani, e quindi questi soldi vanno usati bene. Non solo in Sicilia, ma anche in Lombardia.
Ci sono molti elementi di attualità politica che si stanno intrecciando con l´attuazione del federalismo fiscale. Sono stati ricordati da chi mi ha preceduto. La manovra economica contenuta nel decreto 78 ha un impatto violento sul federalismo. Alle regioni vengono ridotti i trasferimenti per 5 miliardi e mezzo, comprese le speciali. I tagli − attenzione − sono sul non sanitario. Il che significa che si abbatteranno in modo particolare sul trasporto pubblico locale e regionale, sull´assistenza, sulle politiche locali di sviluppo, sui trasferimenti a comuni e province.
I tagli sul sanitario sono 1,8 miliardi. Qui emerge, al di là della propaganda federalista, il vero volto neo-centralista del governo. Aveva fatto l´accordo con le regioni per i risparmi sulla spesa farmaceutica. Per i motivi che poco fa Susanna Camusso ha ricordato, è cosa buona e giusta trovare il modo di risparmiare sulla farmaceutica. L´accordo era che quel miliardo e 800 milioni restava alle regioni per fare quello che Gianfranco Viesti ha detto, cioè per iniziare a migliorare i livelli di servizio nell´assistenza, per le reti ospedaliere esistenti, per fare di più sulle fasce materno-infantili, per fare di più su tutti i servizi di base su cui, soprattutto nel Mezzogiorno, siamo ben lontani dagli standard dell´Europa più avanzata. Invece il governo fa fare lo sforzo sulla farmaceutica alle regioni e poi, contravvenendo al patto, si tiene i soldi per contribuire alla manovra.
Le regioni e i comuni sono in grande difficoltà. Se questa è l´asticella a partire dalla quale dovrà essere attuata la legge 42, io credo che questa attuazione diventi molto problematica. Non vorrei che qualcuno pensasse, a questo punto, di varare qualche ulteriore decreto di attuazione solo pensando di piantare qualche bandierina politica, indipendentemente dalla capacità di affrontare il merito delle questioni. In questo caso il governo e la maggioranza troverebbero una forte opposizione perché, come ha detto Viesti, la legge 42 è una legge molto complicata, molto complessa, può avere esiti diversi, e sicuramente non avrà un buon esito se viene applicata a pezzetti, in modo quindi incompleto, non equilibrato. La legge 42 è una legge che può avere un esito equilibrato se viene attuata integralmente e con grandissima attenzione. Se invece diventa un esercizio di breve periodo per portarsi a casa bandierine da utilizzare in modo smodato e ipocrita sui propri territori, allora no: quella non sarà una buona applicazione della 42.
Da questo punto di vista, ben venga un monitoraggio nazionale sull´attuazione della legge 42 da parte di un´organizzazione come la Cgil. E´ bene che si sappia che gli interessi in campo non sono soltanto quelli espressi e intermediati, spesso in modo egoistico e miope, dai partiti territoriali: ci sono interessi in campo più consistenti, e sono quelli dei lavoratori e dei contribuenti. Perché quando parliamo della legge 42 e usciamo dalle discussioni ipertecniche, ci rendiamo conto che stiamo discutendo di come utilizziamo attualmente circa 240 miliardi di imposte e di spesa pubblica, dentro cui c´è sanità, istruzione, welfare locale, acqua, trasporto pubblico, casa. Stiamo parlando insomma di un pezzo importante delle politiche di welfare del nostro paese, stiamo discutendo di come si utilizzano le tasse dei contribuenti. E dato che oggi in Italia, fatto cento il gettito della principale imposta, quella sui redditi personali, l´86 per cento di quel gettito viene dai lavoratori e dalle lavoratrici dipendenti, pubblici e privati, stiamo parlando dei soldi degli iscritti alla Cgil così come dei soldi di tutti i lavoratori e lavoratrici italiani. La sfida è, da un lato, prendere questi 240 miliardi e trovare una diversa modalità strutturale di finanziamento, e qui se volete siamo nella parte più tecnica ed esoterica della legge, che Rivosecchi ha ben spiegato, ma anche, dall´altro lato, trovare le modalità di spenderli meglio questi soldi, di usare i costi standard, di raggiungere efficienza, di realizzare migliori obiettivi e livelli di servizio.
Molti dicono: attenzione perché, se la perequazione non funziona bene, i territori a più bassa capacità fiscale saranno costretti ad aumentare le tasse locali. È vero. Se la perequazione non funziona bene, ci sarà questo problema. Già oggi, però, e la 42 non è stata attuata, le tasse e le tariffe locali stanno aumentando molto più nel sud che nel nord. Siamo in una città il cui consiglio comunale sta raddoppiando la Tarsu. I palermitani sanno bene di cosa sto parlando. Parlo in una città che ha già oggi il massimo di addizionale Irpef. Ma questa è la condizione della maggior parte delle città del sud. La verità, allora, è che questo sforzo fiscale locale che potrebbe essere necessario in futuro attuare se la perequazione non fosse fatta bene, in realtà noi lo stiamo già applicando nel sud senza la legge 42 e senza avere tutti gli altri elementi di garanzia che la 42 introduce, cioè la trasparenza su cosa si fa di questi soldi e la possibilità di una perequazione più attenta ai servizi essenziali.
Per esempio, qual è il costo standard per un servizio di raccolta e smaltimento di 100 tonnellate di rifiuti? Io lo voglio questo costo standard. Voglio sapere quanto costa a Milano, quanto costa a Torino, quanto costa a Palermo, quanto costa a Roma e voglio sapere quindi qual è la Tarsu giusta che devo pagare. E, se c´è una Tarsu che aumenta, mi devi dire perché sta aumentando, qual è il fattore che me la fa aumentare.
Io su questo vedo un ruolo importante per l´esercizio delle funzioni proprie delle rappresentanze sociali a livello locale e territoriale. Fatemi dire con molta franchezza che, mentre sono poco convinto delle idee di una contrattazione salariale territoriale, invece il terreno territoriale per la concertazione e contrattazione sui beni pubblici locali, sui livelli di servizio e sui loro costi in termini tariffari e impositivi mi sembra un terreno importantissimo da praticare sempre di più sia a livello regionale sia a livello provinciale e comunale.
In conclusione, tutto quello che abbiamo discusso stamattina sta dentro una domanda di fondo. L´hanno accennata molti prima di me. Era l´ultima delle domande fatte da Mazzola. Tutto questo ha a che vedere con una fase storica, economica e sociale in Europa molto difficile. Non dobbiamo dimenticare che circola in Europa un´opinione, attualmente maggioritaria, fatta propria dai governi europei, secondo cui, per effetto della crisi economica e della nuova geopolitica mondiale, non potremmo più permetterci i livelli di welfare e di diritti che abbiamo conquistato negli ultimi cinquant´anni. Questa è la tesi che viene fuori, molto fortemente voluta dal governo tedesco, ma alla fine fatta propria da tutti gli altri, e per primi dai governanti italiani.
Da qui le manovre restrittive, da qui l´idea che per tranquillizzare i mercati non si può fare altro che ridurre il deficit pubblico, da qui il pericolo di aggiungere, con una stretta di finanza pubblica, un di più di recessione o un prolungamento dei tempi per l´uscita dalla recessione e il ritorno a un sentiero di crescita del reddito e dell´occupazione.
Questo punto ha un versante di politica economica. I tedeschi dicono: noi siamo un´economia esportatrice, dobbiamo aspettare che i mercati riprendano, ci agganciamo ai mercati e guadagniamo con l´export. Una politica opportunistica, giustamente criticata dall´amministrazione americana, che avrebbe bisogno di un´Europa più pro-attiva nelle politiche per l´uscita dalla crisi. C´è qualcuno che pensa così anche in Italia. Mazzola ha fatto bene a ricordarci che non possiamo separare il federalismo fiscale dalle vicende più generali relative alle potenzialità di crescita del nostro paese. L´approccio prevalente in Germania, e portato in Italia dal ministro Tremonti, io lo definisco un approccio mercantilista, che non si fa carico di creare domanda e si preoccupa unicamente della competitività dell´export. Un approccio egoista: ci pensino cinesi e americani a sostenere la domanda mondiale.
Questo approccio rischia di erodere il ruolo geopolitico dell´intero continente europeo. Ma in Italia questa idea mercantilista può fare danni peggiori. E´ basata sulla forte competitività dei distretti della manifattura leggera del centro-nord. Lungi da me ridurre l´importanza di questo motore dell´industria italiana, che è certamente fondamentale per aiutare il paese a uscire dalla crisi. Ma se misuriamo l´ampiezza di questa base produttiva e la confrontiamo con l´intero paese, è facile rendersi conto che - mentre è evidente che dobbiamo fare di tutto affinché i distretti del centro-nord manifestino tutta la loro propulsività - è anche chiaro che da soli non ce la fanno a tirarsi dietro l´intero paese. Non ce la fanno. E alcune manifestazioni di insofferenza politica da parte del nord io le leggo così. Il nord ci sta urlando: non ce la faccio. E il motivo vero non è quello propagandato dall´epifenomeno leghista. Il motivo vero è che l´approccio mercantilista non fa uscire questo paese dalla crisi. La sola politica mercantilista rischia di spaccarlo questo paese. Non è il federalismo fiscale a spaccare il paese: è il mercantilismo della politica economica europea, a cui il nostro governo si è supinamente accodato. L´idea che l´unico motore è nei distretti e che tutto il resto è soltanto un peso.
Allora noi dobbiamo con forza dire che, accanto ai distretti, occorre accendere altri motori di sviluppo: la grande industria di base, le reti dell´energia, le reti delle comunicazioni, le reti dei trasporti, le infrastrutture e la logistica del trasporto, la riconversione verde dell´economia e i servizi. Il mio partito ieri ha presentato una piattaforma di liberalizzazione dei servizi che può essere un elemento importante per la crescita di tutti i servizi innovativi e delle libere professioni. E poi la ricerca, l´innovazione, le tecnologie. E poi la filiera cultura-turismo. E l´agricoltura di qualità.
E, naturalmente, il mezzogiorno. Non dimentichiamoci mai che le politiche di sviluppo aggiuntive che vanno fatte per il sud, e che sono state drasticamente ridimensionate dall´attuale governo, non avranno mai sufficiente efficacia e ruolo se vengono considerate in modo separato e distinto dalle politiche ordinarie. Ce lo ha insegnato Viesti nei suoi bei libri degli ultimi anni. Riusciremo a far funzionare i soldi aggiuntivi soltanto se, tramite queste risorse, miglioriamo l´ordinario, per esempio facciamo i programmi per migliorare il livello di istruzione, quelli per migliorare i sistemi di sicurezza e di esercizio della giustizia e della legalità, quelli per migliorare i servizi ordinari, e se concentriamo le risorse sulle infrastrutture che servono davvero allo sviluppo e non sulle grandi e inutili opere faraoniche.
Bisogna ritrovare la voglia di tenere questo paese unito, e riconoscere i benefici dell´integrazione economica nazionale. Quando si parla del federalismo, si parla di quei famosi 3 punti, 3 punti e mezzo di Pil che, per effetto della progressività e dei meccanismi di spesa descritti da Macciotta, il centro-nord versa allo stato e poi lo stato, spendendoli in tutta Italia, destina al mezzogiorno. Il residuo fiscale. Ma non ci dimentichiamo che il centro-nord ha nei confronti del sud un saldo attivo fra esportazioni e importazioni per 80 miliardi all´anno. Secondo una recente ricerca di UniCredit e Banca d´Italia le sole esportazioni nette della Lombardia a tutto il sud superano i 50 miliardi e più che equilibrano l´intero residuo fiscale del centro-nord rispetto al sud.
La ragione dell´integrazione è ancora tutta lì. Ed anzi, si tratta sotto un certo punto di vista di una notizia positiva, perché durante gli anni ´90, in occasione dell´unificazione economica e monetaria europea, molti erano preoccupati che i mercati del mezzogiorno, tradizionalmente "captive" per l´industria italiana del centro-nord, venissero ad essa sottratti da altri paesi europei. Così non è stato, o comunque non è stato in forme e intensità tali da ridurre l´importanza cruciale che hanno i mercati meridionali per i produttori del centro-nord.
E´ possibile quindi pensare ad una politica economica non mercantilista, e pensare all´integrazione economica del paese Italia come ad un valore da proteggere. Per dare forza a queste idee, è tuttavia necessario un contrasto forte e quotidiano alla deriva culturale di deteriore localismo che in tanti hanno oggi denunciato. Grazie, allora, alla Cgil per avere organizzato questo seminario e per volere continuare un´attività di monitoraggio sull´attuazione del federalismo in tutta Italia. Non è un´attività accademica, questa, per il sindacato: ricade pienamente nei doveri della rappresentanza, per l´importanza che hanno assunto la spesa e il fisco locale. E potrà certamente aiutare le forze politiche che in Parlamento si battono per un federalismo declinato non sull´egoismo ma sull´innovazione dello stato e sulla solidarietà.
 

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