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Marco Causi

Professore di Economia industriale e di Economia applicata, Dipartimento di Economia, Università degli Studi Roma Tre.
Deputato dal 2008 al 2018.

La soluzione più conveniente non è sempre quella liberistica del lasciar fare e del lasciar passare, potendo invece essere, caso per caso, di sorveglianza o diretto esercizio statale o comunale o altro ancora. Di fronte ai problemi concreti, l´economista non può essere mai né liberista né interventista, né socialista ad ogni costo.
Luigi Einaudi
 



02/03/2017 M.Causi
Che cosa deve fare l´Italia per rimettersi in carreggiata


Come curare il declino italiano

La recensione al libro di Anna Giunta e Salvatore Rossi (sottotitolo "La nostra economia dopo la grande crisi") dell´economista ex vicesindaco di Roma 

L´Unità, 3 marzo 2017

Si iniziò a parlare di "declino dell´Italia" nei primi anni del nuovo millennio. Nel maggio 2005 l´Economist dedicò la copertina alla nostra penisola, raffigurata barcollante e appoggiata a tante stampelle. Titolo del servizio: "The real sick man of Europe", il vero malato d´Europa. Eppure in quegli anni crescevamo, magari poco e male, ma il Pil era in zona positiva.  

Cosa si dovrebbe dire allora dell´Italia che esce da sette anni di Grande Recessione? Il confronto fra 2015 e 2008 nei numeri dell´economia sembra quello di una paese che ha attraversato una guerra: abbiamo perso il 10 per cento del Pil, il 17 per cento del prodotto industriale, un milione di posti di lavoro, il 30 per cento degli investimenti; la disoccupazione è raddoppiata, sono aumentate le diseguaglianze socio-economiche fra le persone e le distanze fra le imprese, fra quelle che sono riuscite a sopravvivere e crescere, quelle che non ce l´hanno fatta, quelle che restano a metà del guado.

Uscire dal declino si può. Ma dobbiamo farlo con le nostre mani e abbiamo bisogno di tempo

Se prima era declino, oggi l´Italia è un malato incurabile? La risposta di Anna Giunta e Salvatore Rossi nel bel libro edito da Laterza (Che cosa sa fare l´Italia. La nostra economia dopo la grande crisi) è no. Nel sistema Italia circolano sufficienti anticorpi e proteine per avviarsi alla guarigione.

Il punto è che dobbiamo metterli in moto noi stessi, trovare la voglia e le energie per farlo con le nostre mani, dal di dentro del paese, senza aspettarci aiuti e senza invocare qualche vincolo esterno che ci obblighi a farlo.

Anzi l´uso politico dei vincoli esterni, le politiche pavide del "legarsi le mani", di non raccontare la verità all´opinione pubblica e di rigettare ogni responsabilità sull´Europa ("è un obbligo europeo", "basta con i burocrati europei") utilizzate in tanti paesi dell´UE portano una buona parte di responsabilità per la crescita dei sentimenti anti-europei e della diffidenza fra i popoli: un elemento di corrosione pericoloso che spesso vediamo agire, per fare un esempio, quando in Italia si parla di Germania e, reciprocamente, quando in Germania si parla d´Italia.

E poi ci vuole tempo. Piercarlo Padoan, presentando il libro di Giunta e Rossi nella biblioteca della sede romana degli editori Laterza, ha usato parole molto chiare. Il mantra dominante nell´eurozona è che ciascuno deve fare la sua parte con le riforme strutturali e che solo così i risultati macroeconomici miglioreranno. Ma non è per nulla chiaro quali siano i meccanismi di trasmissione fra riforme e macroeconomia. L´unica cosa evidente è che ci vuole tempo, in qualche caso molto tempo.

Le politiche di riforma strutturale hanno bisogno di periodi lunghi per essere attuate e altrettanto lunghi per esercitare effetti. Ne segue che i governi devono essere stabili e gli obiettivi politici che la comunità-paese affida ai governi devono mantenere coerenza intertemporale. In questo quadro è possibile chiedere alle istituzioni semi-federali sovranazionali europee di "dare tempo". Draghi ha acquistato tempo sui debiti sovrani con il bazooka delle Omt, il programma di eventuali acquisti illimitati della BCE sui titoli di Stato di un paese sotto attacco speculativo. Di altre importanti innovazioni politiche in Europa si sta discutendo: ad esempio sulle politiche industriali, con il recente documento dei Ministri dell´industria dei più grandi paesi europei, e sulle politiche di bilancio, con le proposte avanzate dal gruppo di riflessione Monti o con quelle che l´Italia ha lanciato un anno fa nel documento Padoan (sussidio europeo di disoccupazione, condivisione dei rischi, completamento dell´Unione bancaria, eccetera).

Cosa sappiamo fare. L´Italia nelle catene globali del valore

All´Europa possiamo chiedere tempo ma il lavoro da fare è nostra responsabilità. Giunta e Rossi descrivono bene cosa sappiamo fare e cosa dovremmo e potremmo fare, partendo da un´attenta analisi dei punti di forza e di debolezza del paese.

L´Italia è un paradosso riassumibile in due dati: abbiamo da più di vent´anni una crescita della produttività fra le più basse al mondo, ma nel 2016 abbiamo raggiunto il più elevato avanzo di bilancia commerciale della storia, secondo in Europa alla sola Germania ormai da molti anni.

Com´è possibile questo? La risposta è che un´importante pattuglia delle nostre imprese è riuscita a posizionarsi in modo eccellente dentro le nuove modalità produttive internazionali, le catene globali del valore.

Nel mondo di oggi non c´è più distinzione fra industria e servizi: ogni prodotto industriale ha dentro di sé ampie componenti di attività di servizio (ricerca e sviluppo, distribuzione, marketing, assistenza al cliente) e ogni attività di servizio utilizza importanti basi industriali (infrastrutture, reti, sistemi informatici e di comunicazione, beni strumentali). Nel mondo di oggi la maggior parte dei beni e servizi non è interamente prodotta dentro un paese, ma assemblando fasi produttive successive che possono essere svolte in diversi paesi: sono queste le catene globali del valore. La competizione fra paesi non è più sul prodotto finale, come quando nel XIX secolo Ricardo elaborò la teoria dei vantaggi comparati, ma sui compiti produttivi che aggiungono "segmenti" di valore al prodotto. Il nuovo assetto produttivo è figlio delle tecnologie dell´informazione e della comunicazione, della riduzione dei costi di trasporto e di logistica e della liberalizzazione dei commerci internazionali.

Giunta e Rossi raccontano questa rivoluzione con semplicità. Descrivono casi concreti di storie d´impresa. E´ un racconto importante per capire tratti essenziali della fase politica internazionale che stiamo vivendo. La campagna neo-protezionistica di Trump si scontrerà prima o poi col fatto che l´aumento delle imposte sull´import statunitense non colpirà soltanto beni finali assemblati in altri paesi, ma anche tanti beni intermedi utilizzati dalle imprese americane. Di fronte alla rinascita di sentimenti nazionalistici in Europa bisogna sapere e far sapere che dentro ciascun prodotto finale assemblato in ogni paese ci sono importanti segmenti produttivi provenienti da altri paesi: dentro un´automobile tedesca ci possono essere freni italiani, dentro un´automobile italiana ci possono essere vetri francesi, dentro un mobile Ikea ci può essere legno lavorato in Italia.

I risultati straordinari dell´export italiano sono figli della capacità di un pezzo del nostro sistema produttivo di conquistare posizioni importanti come fornitori di prodotti intermedi che richiedono elevata tecnologia e specializzazione.

Cosa possiamo fare. Creare un habitat favorevole alla crescita delle imprese

Le imprese italiane sono storicamente abituate alla subfornitura: l´hanno praticata fin dagli anni ´70 con il decentramento produttivo delle grandi imprese e nei distretti industriali. Per quelle che ci sono riuscite, l´abitudine a lavorare per "segmenti" dentro una catena del valore è diventata un elemento di vantaggio competitivo. Mentre andavano in crisi molti dei tradizionali distretti industriali del "made in Italy", il settore che ha meglio tenuto è la meccanica, oltre all´agroindustria, al lusso e in parte ai beni per la casa.

Fin qui i punti di forza. Perché non sono sufficienti a rimettere l´Italia sulla carreggiata della crescita? Primo, perché le imprese ben posizionate come subfornitori specializzati sono poche, non più del venti per cento, contro un altro venti per cento che sembra ormai incurabile e il restante magma del sessanta per cento che naviga in un "grande golfo" in cui non è chiaro prevedere se riusciranno a raggiungere la Scilla della modernizzazione o se scivoleranno verso la Cariddi dell´uscita dal mercato.

Secondo, perché abbiamo pochissime imprese che recitano nelle catene globali del valore la parte più importante: architetto della catena e proprietario del marchio del prodotto finale. Per raggiungere questo ruolo bisogna investire in ricerca e sviluppo, innovare prodotti e processi, gestire reti produttive e commerciali globali. Tutto ciò è possibile solo per imprese di grande dimensione. L´Italia ne ha pochissime, la frammentazione produttiva è uno svantaggio. Inoltre le imprese medie e medio-piccole di successo hanno difficoltà − in qualche caso paura − di crescere. Quello che possiamo fare secondo Giunta e Rossi è determinare le condizioni affinché le imprese con potenziale di crescita possano realizzare questo potenziale.  

Condizioni interne alle imprese in primo luogo, con incentivi e azioni dirette per gli investimenti, il rafforzamento patrimoniale, il sostegno alla ricerca e all´innovazione. Molti strumenti sono stati messi in campo a partire dal 2012: detassazione dei nuovi apporti di capitale; super-ammortamento; intervento diretto dello Stato tramite Cassa Depositi e Prestiti e i suoi fondi di private equity; incoraggiamento a tutte le forme di finanziamento non bancario (mini bond, venture capital); fondi europei per la ricerca; programma Industria 4.0; da ultimo, nella legge di bilancio 2017, riduzione dell´imposta sulle società ed estensione alle piccole imprese dell´incentivo fiscale alla patrimonializzazione. Bisogna andare avanti su questa strada, perseverare, monitorare con attenzione l´efficacia di queste politiche per eventuali correzioni. Essere consapevoli che c´è bisogno di tempo per raggiungere i risultati desiderati.

In secondo luogo condizioni esterne alle imprese, per modificare le quali c´è bisogno non solo di tempo ma anche di un grande impegno politico. Giunta e Rossi si soffermano in particolare sul sistema bancario e su quelli della giustizia e dell´istruzione. Non dimenticano di puntare il dito sulle rendite di posizione nei settori protetti dalla concorrenza e sui labirinti delle procedure amministrative dello Stato e degli altri enti pubblici. Esprimono preoccupazione per le conseguenze del risultato referendario del 4 dicembre 2016. Sottolineano che alla strada delle riforme strutturali non c´è alternativa e che è necessario lo sforzo politico di farne maturare la comprensione e la condivisione fra le persone e le categorie che vi sono coinvolte.

La crisi bancaria

Un capitolo del libro è dedicato a banche e finanza. Sono pagine dense e importanti nelle quali uno degli autori del libro, direttore generale di Banca d´Italia, compie il difficile esercizio di sottoporre ad analisi e interpretazione vicende di cui è stato diretto testimone. La descrizione delle promesse non mantenute dal progetto di Unione bancaria europea getta luce su un pezzo importante della recente storia italiana, su vicende di cui si discuterà ancora a lungo.

E´ un racconto equilibrato, sobrio, puntuale, prudente, com´è giusto che sia per un banchiere centrale. Penso che se ne possano trarre conclusioni politiche su cui gli autori, comprensibilmente, non si avventurano, mentre chi scrive questa recensione − e ha seguito molte delle vicende dall´osservatorio del Parlamento − è stimolato a farlo dalla lettura del loro testo. I punti sono due: le distorsioni indotte dai modelli di proprietà bancaria non capitalistici; la sottovalutazione politica della questione bancaria fra 2012 e 2015.

Il sistema italiano è banco-centrico. Lo strumento più diffuso è lo scoperto di conto corrente ed è altrettanto diffusa la pratica del multiaffidamento: un´impresa ha rapporti con più di una banca, così le banche si suddividono il rischio e l´impresa può evitare che un soggetto esterno sia a conoscenza di tutte le informazioni che la riguardano.

Si tratta di una peculiarità italiana: non a caso fra le cose che stiamo facendo e dobbiamo continuare a fare c´è il rafforzamento dei canali finanziari diversi da quello bancario. Ma c´è di più: la caratteristica territoriale policentrica degli insediamenti di popolazione e imprese in Italia ha portato alla diffusione di istituti bancari di dimensione locale; molti sono cresciuti storicamente in forme cooperative normali o ibride (banche popolari) e hanno assetti di governance che rendono difficile l´acquisizione di nuovo capitale. Ciò ne blocca la crescita oppure, in caso di difficoltà, limita la capacità e velocità di reazione. In verità nella frase precedente bisognerebbe usare l´imperfetto, perché riforme importanti sono state introdotte negli ultimi due anni per superare questi vincoli nel settore delle banche cooperative e in quello delle popolari.

Il modello di governance delle banche territoriali prima delle riforme era portatore di potenziali distorsioni. Pur di non perdere il controllo della banca gli azionisti e stakeholders territoriali potevano, a fronte di opportunità di crescita che richiedono nuovo capitale, dare indirizzi al management di cercarlo in modi diversi da quello normale, e cioè dal mercato, pur di non vedere diluite le loro quote.

A ben vedere è da qui che nasce la crisi di Montepaschi (che è una SpA e che nel libro non viene trattata né citata). Non dalla "sinistra" che spolpa una banca, né da imprese truffaldine che non restituiscono il credito. Ma dall´obiettivo, sbagliato, della comunità di Siena e delle sue istituzioni civiche di non perdere il controllo del più antico istituto di credito d´Europa: un obiettivo municipalistico, che fa a pugni con prassi di gestione trasparente e moderna di una banca. La stessa distorsione ha portato piccole banche locali a struttura cooperativa ibrida (popolari), di fronte alla necessità di adeguare i requisiti di capitale, a ricorrere non al mercato − che porta nella banca soggetti in grado di monitorare efficienza e gestione − ma al collocamento presso clienti, famiglie e imprese, di obbligazioni subordinate a rischio elevato.

C´è da augurarsi che la Commissione d´inchiesta sulle crisi bancarie che il Parlamento sta varando lavori a una vera indagine conoscitiva su questi aspetti strutturali, leggendo con attenzione il capitolo 7 del libro di Giunta e Rossi. Se negli episodi reali di crisi bancaria si sono manifestati comportamenti soggettivi civilmente o penalmente rilevanti, essi vanno perseguiti nelle sedi proprie della giurisdizione, come sta avvenendo. C´è anche da sperare che l´iniziativa del Parlamento non produca intralcio alle indagini della magistratura. E´ già successo in passato con altre Commissioni d´inchiesta: un esito possibile quando le motivazioni dell´iniziativa politico-parlamentare hanno a che fare più con la comunicazione e lo scontro fra i partiti che non con la volontà di produrre conoscenza condivisa sull´analisi e l´interpretazione di questioni complesse.

Le promesse non mantenute dell´Unione bancaria

Il modello italiano banca-impresa non poteva non incontrare difficoltà dopo sette anni di recessione. Il fenomeno dei crediti deteriorati nasce dalla natura delle banche italiane, prevalentemente commerciali e non d´investimento, e dalla crisi di tante imprese, diventate totalmente o parzialmente insolventi durante la Grande Recessione. La crisi però è stata aggravata dall´evoluzione imprevista di alcuni indirizzi europei che, come Giunta e Rossi dimostrano, non sono soltanto discutibili: sono palesemente sbagliati.

La mina vagante dei debiti sovrani, depotenziata dall´iniziativa della BCE, si trasferisce nel corso del 2012 sulle banche, che detengono ampie quote dei debiti pubblici degli Stati di appartenenza. La risposta fu il progetto di Unione bancaria, centrato su tre pilastri: fondo comune di garanzia dei depositi bancari, schema comune di risoluzione delle crisi bancarie, sistema unico di vigilanza. Nelle parole di Giunta e Rossi: "Toccherà agli storici della politica internazionale e dell´economia spiegare che cosa maturò nelle cancellerie europee nel 2012 e nel 2013. Il risultato finale fu un rovesciamento di priorità: prima si procedette affrettatamente alla costituzione del Meccanismo unico di vigilanza e subito dopo alla messa a punto di un sistema di "risoluzione" delle crisi bancarie alquanto diverso dalle premesse". Del fondo comune di garanzia per i depositi bancari non si è più parlato, e non si parla neppure oggi, per l´opposizione tedesca.

L´unico obiettivo perseguito fu quello di impedire che future crisi bancarie fossero risolte ricorrendo a risorse pubbliche (bail in), e questo dopo che la Germania negli anni precedenti aveva aumentato il suo debito pubblico di 225 miliardi per intervenire a sostegno di banche nazionali in difficoltà. L´Italia ne aveva spesi soltanto due, e non avrebbe potuto permettersi ciò che ha fatto la Germania. Resta il fatto che l´intervento europeo è fortemente asimmetrico e non sembra tenere in alcun conto l´obiettivo della stabilità del sistema finanziario.

Non è finita: l´Europa picchia l´Italia sulla questione bancaria in altri tre modi. La Direzione concorrenza della Commissione emette una comunicazione (atto amministrativo, non soggetto alla valutazione in sede di Consiglio o Parlamento) con cui impedisce agli esistenti fondi nazionali di tutela dei depositi, finanziati dal sistema bancario con risorse private, di essere utilizzati in casi di crisi bancaria (è attraverso questo fondo che, nei decenni passati, l´Italia aveva risolto le crisi bancarie salvaguardando la stabilità del sistema). La nuova vigilanza europea mette nel mirino i crediti bancari deteriorati più di quanto faccia con le perdite sulle operazioni speculative, ad esempio quelle in derivati, e le sue comunicazioni pubbliche infliggono più volte colpi alla reputazione di mercato delle banche italiane. Quando arriva la prima applicazione delle nuove normative, con quattro piccole banche italiane inserite alla fine del 2015 nel nuovo procedimento di "risoluzione" prima che si avviassero verso il fallimento, i funzionari della Commissione decidono che i crediti deteriorati di queste banche devono essere valutati al 18 per cento del loro valore nominale. Un livello che Giunta e Rossi giudicano "irragionevolmente basso". In effetti i dati statistici esistenti mostrano che sull´insieme dei crediti deteriorati del sistema bancario italiano nel periodo che va dal 2011 al 2014 la percentuale di recupero è del 40 per cento.

Sottovalutazione della questione bancaria: figlia della debolezza della politica

E´ un complotto anti-italiano ordito dai governi nordici e dalle burocrazie europee? Giunta e Rossi rispondono di no: il peso geopolitico dell´Italia era debole e soprattutto poco credibile la nostra richiesta di mutualizzazione dei rischi (con l´assicurazione europea dei depositi) in assenza di contropartite sulla stabilità e sul rigore delle nostre pubbliche finanze, nonché sulla trasparenza dei comportamenti e sulla riforma delle regole nel nostro sistema bancario.

Se Giunta e Rossi hanno ragione oggi dovremmo essere più forti, dopo le riforme delle banche popolari e cooperative. Tuttavia io penso che c´è un elemento in più: siamo stati noi a non saperci difendere bene in questa partita, che vale molto più di qualche zero virgola di flessibilità sul bilancio pubblico. Fra 2012 e 2015 c´è stata una sottovalutazione della priorità politica che avrebbe dovuto essere assegnata alla questione bancaria.

Leggo questa sottovalutazione in due fatti, ciascuno dei quali porta a una conclusione politica. Primo, il trattamento fiscale degli accantonamenti nei bilanci bancari dei crediti deteriorati era molto penalizzante in Italia al confronto degli altri paesi europei e di fatto rappresentava un incentivo a non fare pulizia, a tenere nascoste le partite incagliate. Rimuovere quello svantaggio però, nella vulgata dominante della politica italiana, significa "fare un favore alle banche". Il governo ha trovato il coraggio di agire solo quando la crisi ha raggiunto livelli di guardia, nel 2015.

Secondo, Banca d´Italia chiedeva da molto tempo il potere di rimuovere singoli amministratori o interi consigli di amministrazione di istituti mal gestiti, ma lo ha ottenuto solo nell´estate del 2015: prima ha potuto utilizzare soltanto la "moral suasion" oppure ha dovuto aspettare l´intervento della magistratura. Si vede bene qui il potenziale ruolo distorsivo esercitato dalle piccole banche locali e la loro capacità di "catturare" la politica.

Il discorso pubblico sulla questione bancaria italiana, insomma, è attraversato da superficialità, pressappochismo, populismo, pressione corporativa, rincorsa fra i partiti a dimostrare che non si fanno favori ai banchieri. La sottovalutazione del problema è figlia di questa debolezza, tutta interna alla politica e ai cortocircuiti perversi fra politica e comunicazione. Il merito di Anna Giunta e Salvatore Rossi è di fornire nel loro libro materiali, informazioni e valutazioni che offrono un contributo per migliorare il tono e la qualità della discussione pubblica.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



 
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